I personaggi Illustri di Sepino

Sepino, un paese con l’anima di una città. Terra di cultura, di storia, di tradizione. Oltre a questo grandissimo patrimonio, universalmente riconosciuto, il paese può vantare di aver dato i natali a personaggi di grande importanza, molti dei quali oggi caduti nell’oblio. La maggior parte di questi personaggi importanti sono riportati in un prezioso volume: “Uomini illustri di Sepino” di Nicolino Ruotolo – 1971. La lettura di questa opera fa rimanere tutti completamente meravigliati, per la quantità di notizie documentate a riguardo di persone che lasciarono un profondo segno nella storia. Ricordiamo primo fra tutti Vincenzo Tiberio, vero scopritore della penicillina, la Gens Neratia nell’antica Saepinum, Angelo Catone, illustre medico, Padre Ottavio Chiarizia, le potenti e nobili famiglie Giacchi, Finizia, Volpe, Tedeschi, Caserta, William Cusano, politico in Canada e tanti altri nati in tempi diversi, ma sempre figli di questa terra.

 

Vincenzo Tiberio, vero scopritore della Penicillina

tiberioNel 1945 venivano insigniti del nobel, il premio più ambito dai più grandi ricercatori del mondo, per i loro meriti nei campi della medicina e della fisiologia, gli inglesi Alexander Fleming, Ernst Boris Chain e l’australiano Howard Florey. Gli scienziati, studiando delle colture della muffa Penicillium notatum, riuscirono a sintetizzare per la prima volta una sostanza capace di fermare lo sviluppo e la proliferazione delle colonie batteriche, la penicillina. Due anni dopo il professore Giuseppe Pezzi, ufficiale medico di marina, portò alla luce degli studi che anticipavano la scoperta della penicillina di ben 33 anni. Questi studi furono approfonditi da un giovane scienziato italiano: dovreste già sapere di chi stiamo parlando. Si tratta ovviamente del nostro illustre ma dimenticato concittadino, il dott. Vincenzo Tiberio. Egli nelle sue ricerche pubblicate nel 1895 presso l’Istituto di Igiene della Regia Università di Napoli, osservò il potere chemiotattico degli estratti di muffe nelle infezioni sperimentali del bacillo del tifo e del colera. In effetti il suo nome, come la stima di noi sepinesi nei suoi confronti, è andata affievolendosi nel tempo. Ne è prova il fatto che il suo busto commemorativo sia stato tolto dalla torre della piazza e abbandonato in chissà quale magazzino a riempirsi di polvere. Di seguito vi riportiamo la sua vita, che come vedrete è testimonianza di profondi valori umani e sociali, vero monito ed esempio da tenere sempre presente per tutti i suoi concittadini. Vincenzo Tiberio nacque da famiglia abbastanza benestante, infatti il padre Domenico esercitava la libera professione di notaio; compì gli studi elementari nella nostra Sepino e gli studi superiori a Campobasso.In seguito si laureò all’età di soli 22 anni presso la facoltà di Medicina dell’Università di Napoli. Durante questo periodo alloggiò presso gli zii Graniero, nella loro casa di Arzano; e quella scelta segnò la vita di Vincenzo; conobbe la cugina Amalia Teresa, figlia dei Graniero, che avrebbe sposato il 5 agosto del 1905 nella cappella della casa dei suoceri ad Arzano. La casa di Arzano si rivelò scelta felice anche per la maturazione professionale del giovane, poiché quell’angolo di mondo rustico gli consenti di continuare ad esercitare il proprio spirito di osservazione sulla natura; anzi, fu proprio lì che scoprì lo strano comportamento di alcune muffe presenti all’interno del pozzo di quella casa. Infatti ogni qual volta le pareti del pozzo venivano ripulite dalla presenza di tali funghi le persone che bevevano l’acqua attinta dallo stesso pozzo presentavano dei disturbi intestinali fino alla formazione di nuove muffe. Tiberio intuì che le muffe avevano grande parte nella potabilità dell’acqua e immaginò che tra le muffe e alcuni batteri si verificasse il fenomeno dell’antibiosi. Tiberio, divenuto l’anno successivo assistente presso l’Istituto di Igiene della stessa Università, diretto dal prof. De Giaxa, volse la sua attenzione verso gli ifomiceti. Tuttavia l’azione delle muffe era nota ai medici della Grecia e di Roma antiche, che la utilizzavano sotto forma di poltiglia per ricoprire le ferite, al fine di impedirne la suppurazione. Nel 1895, dopo la pubblicazione del suo lavoro Vincenzo Tiberio prese parte al concorso per Medico di 2° classe nel Corpo sanitario marittimo e lo vinse. Ci si è chiesti come mai un giovane e brillante assistente universitario ed autore di una ricerca di notevole interesse avesse deciso di lasciare una carriera così promettente, per entrare nella Regia Marina. La risposta è nei «Diari» del medico molisano: in Tiberio vi era il desiderio di conoscere il mondo e di allargare la propria cultura e le proprie esperienze oltre che un fervido patriottismo. Dopo diverse spedizioni nelle quali fu sua prerogativa la prevenzione di malattie legate alla vita sul mare la somministrazione di precise razioni alimentari ai marinai, si distinse soprattutto nella spedizione verso Zanzibar dove riuscì a curare alcuni marinai affetti da vaiolo e beri-beri grazie all’integrazione degli estratti della pianta della china e del ferro. Tornato in Italia si attivò per portare soccorso alle popolazioni duramente colpite dal terribile terremoto del 1905 che rase al suolo Messina e Reggio Calabria, riuscendo così a portare in salvo oltre 2.000 persone.  «Per essersi segnalato in operosità, coraggio, filantropia e abnegazione» ricevette un importante riconoscimento. Nel marzo 1912, Tiberio venne nominato direttore del gabinetto batteriologico dell’ospedale militare di La Maddalena, dove rimase sino al novembre dello stesso anno; e, pur in un periodo così limitato riuscì a dare la sua impronta di ricercatore, dedicandosi in particolare ai problemi relativi alle infezioni malariche assai diffuse in quel periodo in quel area. Poi venne trasferito in Libia, il 13 gennaio del 1913 raggiunse Tobruck per assumere l’incarico di direttore del Laboratorio di analisi di quella infermeria. In quella sede condusse a termine studi, successivamente documentati in un importante lavoro scientifico sulla «Patologia libica e vaccinazione antitifica». La vaccinazione antitifica, da lui disposta con tempestività, evitò l’attecchimento della malattia nel personale della Regia Marina tanto che si verificarono nel 1913 solamente due casi, di entità clinica modesta di paratifo B. E fu a Tobruck che, il 16 agosto del 1913, gli giunse dal Ministero la notizia della promozione a maggiore. Con quel grado, venne trasferito a Napoli, dove il 7 gennaio 1915, la sua vita operosa si spense all’età di soli 46 anni. Era già cominciata la prima guerra mondiale, che, di lì a poco avrebbe coinvolto anche l’Italia. Ultimamente è stata sollevata l’ipotesi che Fleming potesse essere a conoscenza degli studi del Tiberio. In effetti all’epoca Napoli era un centro di studi molto importante a livello internazionale ed è possibile , nonostante che le pubblicazioni fossero in lingua italiana (infatti allora si usava pubblicare saggi scientifici nella lingua madre), che queste siano potute essere prese come spunto per nuove ricerche. Ebbene, ora che la paternità della scoperta può essere tranquillamente attribuita al nostro concittadino, viste le sue pubblicazioni antecedenti i lavori di Fleming, e nonostante ciò non sia stato riconosciuto a livello internazionale, noi crediamo che, al di là di qualsiasi polemica che “lascia il tempo che trova”, dovremmo andare comunque molto fieri che il nostro Paese abbia dato i natali ad una delle menti innovatrici del secolo passato e dare come esempio alle nuove generazioni i valori sani e genuini di persone come Vincenzo Tiberio.

Luca Lisella e Cristian Mottillo – Il Paese – periodico sepinese – 2005/2006

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lapide in piazza Nerazio Prisco in Sepino

Nerazio Prisco, un imperatore mancato

E’ l’anno 117 d.C. in Cilicia, Traiano guida una spedizione militare contro i Parti, popolo belligerante che rappresenta una seria minaccia per i confini di Roma. Al suo seguito il “Consilium principis”, un gruppo di uomini fidati, sostegno dell’Imperatore nelle scelte decisive, tra i quali si distingueva per lealtà, moralità e capacità il consigliere Lucius, un provinciale di modeste origini arrivato in auge rivestendo tutte le cariche più importanti.E’ proprio durante questa spedizione che ormai sul letto di morte, colto da malori improvvisi, l’Imperatore rivela in confidenza al suo consigliere che la scelta di futura guida dell’Impero Romano è caduta proprio sulla sua persona.Consapevole dell’importanza della carica assegnatagli parte alla volta di Roma, per annunciare al Senato dell’improvvisa scomparsa dell’Imperatore e delle sue ultime volontà. Ma a Roma la moglie di Traiano, Plotina aveva tutt’altri piani per il futuro dell’Impero. Infatti grazie ad intrighi e congiure riuscì a far nominare successore al trono Elio Adriano, figlio adottivo dell’Imperatore Traiano.

L’onestà e la lealtà dimostrata all’Impero furono calpestate da sporchi giochi di palazzo e dalle beghe di una donna. Moriva così nella sua villa presso Santa Maria maggiore a Roma sotto l’Imperatore Adriano il nostro antico concittadino LUCIUS NERATIUS PRISCUS, al quale oggi è intestata la nostra bellissima piazza.Pochi sapranno che questa storia non è frutto della nostra fantasia, ma ripresa interamente dalla realtà delle fonti storiche. Originario della famiglia dei Neratii, che aveva rivestito sin dall’età  repubblicana magistrature locali e nota da fonti epigrafiche e letterarie, proveniente da Saepinum, Nerazio Prisco è asceso al consolato nel periodo flavio e i suoi successori sono rimasti in auge nell’ordine senatorio fino all’epoca tarda.

VITA: Nato nel 50 d.C. nella città romana di “Saepinum” percorse in breve tempo il cursus honorum grazie alle sue abilità e alle pregevoli doti morali, distinguendosi anche come valoroso generale e come giurista. Nominato console suffeto nel 97 d.C., governatore della Germania Inferiore tra la fine del 97 ed il 100-101 e fu inviato dall’Imperatore Nerva a partire dal dicembre del 102 come Governatore nella Pannonia. Con la guerra dacica, i romani erano venuti in possesso di importanti miniere d’oro e l’imperatore vi mandava come ispettore un uomo che già si era distinto in Roma per moralità, fedeltà e onestà. La scelta cadde proprio su Nerazio, perchè era stato già tesoriere del denaro dello Stato. Da Traiano (97.-117) fu chiamato a far parte del “Consilium Principis” e divenne intimo consigliere dello stesso, fino a diventare quasi Imperatore. Lucio Nerazio fu anche capo della famosa scuola proculiana, fondata da Sempronio Procuro, e assieme agli altri discepoli lasciò più di 400 volumi sui Responsa giuridici, purtroppo giunti sino a noi in maniera frammentaria. Le vicende soprascritte testimoniano i profondi valori morali che animavano lo spirito del sannita Lucio Nerazio Prisco vittima di un sistema, quello politico, corrotto e depauperato dei suoi principi basilari. Come allora anche oggi vi sono casi di servilismo politico nei confronti di interessi particolari e non comunitari come prediligeva il nostro antenato.

NOTA DELLA REDAZIONE SEPINO.NET 28/08/2014

Numerose sono le discussioni sulla figura, sulla vita e sulla famiglia di Lucio Nerazio Prisco. Dibattiti alimentati dalle poche fonti che ci sono pervenute. Argomento molto vivace è la possibile designazione al trono imperiale del nostro concittadino da parte dell’imperatore Traiano, di cui sicuramente fu intimo consigliere ed illustre giurista. La fonte storica principale che ci induce a sostenere questa tesi in termini positivi è l’Historia Augusta. Nella prima parte si afferma: << Frequens sane opinio fuit Traiano id animi fuisse ut Neratium Priscum, non Hadrianum, successorem relinqueret, multis amicis in hoc consentientibus, usque eo ut Prisco aliquando dixerit: “commendo tibi provincias, si quid mihi fatale contigerit >>. Ogni considerazione sull’attendibilità di questa raccolta di biografie spetta agli storici. Lucio Nerazio Prisco ad un passo dall’essere imperatore; verità o fantasia? A noi piace credere alla prima opzione.

di Luca Lisella e Cristian Mottillo – Il Paese – periodico sepinese 2005/2006

Padre Ottavio Maria Chiarizia

Molto spesso in passato e’ successo e tuttora succede che uomini di grande ingegno sono costretti a rimanere nell’ anonimato perché quello che dicono o fanno è troppo avanti con i tempi o troppo scomodo per alcuni. È il caso del padre predicatore Ottavio Maria Chiarizia, ma sono passati molti anni dalla sua morte per cui parlare del suo operato non può ledere nessuno o modificare eventi già accaduti. La riscoperta di questo nostro illustre paesano la si deve al professore di lettere e storico Dante Marrocco di Piedimonte Matese che ha curato del padre una lapide muraria e ha ricercato notizie sulla sua vita e sulle sue opere che furono pubblicate anonime probabilmente per i motivi sopra citati. In uno dei suoi scritti sul padre Chiarizia P.OTTAVIO CHIARIZIA O.P. PRECURSORE DELL’ IDEA DELL’UNITA’ EUROPEA estratto dalla rivista MEMORIE DOMENICANE il prof. Marrocco sviluppa una biografia e descrive gli scritti del padre, attraverso i quali cerca di tracciarne un profilo ideologico, purtroppo i dati sulla sua vita sono frammentari soprattutto nel periodo dell’ occupazione francese…

Nato a Sepino il 22 ottobre del 1729 entrò giovanissimo nell’ordine domenicano e compì il noviziato nel convento di san Tommaso in Piedimonte fondato nel 1414. L’ ordine di Pedimonte fu soppresso ad opera di Gioacchino Murat nel 1807 così tutto lo studio generale, dai collegi alle biblioteche alle scuole di teologia, chiusero i battenti poiché i beni furono confiscati e sperperati , ma già molto prima dell’occupazione francese fu inviato a Napoli, dove assunto il nome di fr. Maria dimorò per molti anni nel collegio di San Tommaso dove il 22 gennaio 1755 fu promosso “Lettore”. Il maestro generale p. Tomaso Boxadors lo nominò maestro “in honoris causa” in teologia nel 1771. Dal 1775 al visse a Palermo dove ricoprì la carica di Teologo del viceré Don Marcantonio Colonna principe di Aliano,dal 1780 al 1782 fu vicario dei domenicani e da allora non sé ne hanno più notizie certe tranne che per il suo ritorno a Napoli ed in un ambiente fortemente anticlericale probabilmente fu costretto a deporre gli abiti dell’ ordine che forse riprese nel 1815 alla restaurazione ….si spense novantacinquenne il 22 ottobre 1829 e fu sepolto al S’Efrem a Napoli.

Michele Chiarizia per il Paese – periodico sepinese – 2005/2006

Padre Vittorio Scardera

padre vittorio scarderaIl 26 settembre 2005 è venuto a mancare il nostro caro Padre Vittorio, figura di rilievo e punto di riferimento per generazioni di giovani. A dare l’ultimo saluto erano presenti i parenti, tutti i confratelli, le autorità civili, le forze dell’ordine e tante altre persone che hanno voluto rendere il giusto omaggio alla salma. Di lui si ricordano le sue qualità morali, la sua capacità di trasmettere serenità, gioia e tanta voglia di vivere. Antonio Scardera nasce nel 1928 a Casacalenda. Riceve gli ordini nel 1953 e dopo pochi anni viene trasferito nel convento S.S. Trinità a Sepino. Riesce da subito a inserirsi nella comunità e contribuisce attivamente alla vita sociale e religiosa del paese insegnando ai giovani nella scuola Serafinica. E dopo cinquantadue anni di sacerdozio, passati in gran parte a servire il Signore con vera e sincera fede, ci lascia solo dei bellissimi ricordi. Ma noi vogliamo ricordarlo per la sua umiltà, per la sua forza d’animo, la sua simpatia, la sua vitalità, il suo modo di dialogare con i giovani ed in modo particolare per gli schiaffoni che ci tirava per portarci sulla retta via.

La Redazione de “il Paese” – periodico sepinese – 2005/2006

Nel ricordo del maestro Pierino Rescigno

pierino rescignoI miei occhi grondano di lacrime, notte e giorno, senza cessare, perché la famiglia del mio popolo è stata colpita da una grande calamità, da una ferita mortale. Aspettavamo la pace e non c’è alcun bene. Aspettavamo l’ora della salvezza ed ecco il terrore!” Così scriveva il Profeta Geremia nell’Antico Testamento, con queste parole Don Alberto Conti inizia l’omelia dei funerali di Piero. Si parla di morte dunque e di dolore per la perdita di una vita umana. La scomparsa del maestro ci giunge inaspettata: seppur al culmine di una grande sofferenza e di un grande travaglio interiore, la perdita di Piero arriva inaspettata proprio perché mai nessuno vorrebbe perdere un caro, tanto meno una persona speciale come lui. Impotente dinnanzi alla morte… con orgoglio ha saputo comunque combattere fino alla fine dei suoi giorni la sua malattia, grazie anche all’aiuto dei propri familiari. Le persone come Lui non muoiono per sempre, solo si allontanano. “Quando sarò morto, venite sulla mia tomba, veniteci quando avrete tempo. Mi ricorderete tutto quello che peserà sul vostro cuore, tutti i vostri dolori; con la faccia a terra mi raccontere tutto come se fossi vivo, ed io vi ascolterò e cancellerò la vostra tristezza: perché per voi sarò sempre vivo!”, ricordava un mistico dell’800. Il maestro infatti continuerà a vivere nella pace di Dio, ma soprattutto nei nostri ricordi… Lo sentiremo sempre nel nostro cuore. La tenacia di Piero non potrà mai spegnersi, la passione che metteva in tutte le cose che faceva non è certo passata inosservata e non sarà di certo dimenticata. Sepino stessa non può dimenticare il caro maestro, così come Piero non ha mai dimenticato, neanche per un istante, la sua amata casa natale. Nel giorno delle esequie, il feretro è stato accolto nella chiesa di Santa Cristina (interessata da lavori di restauro e riaperta in anticipo per permettere lo svolgersi dei funerali secondo la volontà del maestro che desiderava vivamente ricevere l’ultimo saluto proprio in quella chiesa) da centinaia di amici, colleghi e alunni; segno tangibile dell’affetto che tutti i sepinesi provavano nei confronti di questo grande uomo. Parlavo prima di passione, la stessa che il Maestro Pierino, così affettuosamente definito dai suoi innumerevoli discenti, per istruire generazioni e generazioni di ragazzi sepinesi.  Ha dato molto a tutto “L’Istituto Comprensivo” di Sepino: il suo insegnamento poteva apparire rigido, fiscale, ma di certo efficace. Il profondo amore che aveva per Sepino non si manifestava solo nell’insegnamento: spinto da un incolmabile desiderio di far conoscere la storia del nostro bel paese, ricchissimo di passati illustri, si è sempre impegnato diligentemente nel cercare negli archivi, nelle biblioteche, pubbliche o private, le notizie necessarie a ricostruire il bel passato di Sepino. Un impegno “encomiabile” che lo ha portato a scrivere molti libri, tra cui sicuramente il più famoso”DIARIOSEPINO”. Piero ci guida dall’alto perché “niente cade nel nulla, nulla cade nel buio, ma tutto entra nel silenzio”. In questi momenti le parole non servono ad alleviare il dolore, ma sicuramente possono elogiare la sue qualità, la sua forza,la sua gioia di vivere. Noi che abbiamo avuto il privilegio di conoscerlo, sebbene in minima parte… per la riconoscenza ed il rispetto che tutti gli dobbiamo cercheremo di fare modello del suo incancellabile ricordo consapevoli di aver perso una persona di grande esperienza avrebbe potuto darci “PREZIOSI” consigli per la nostra iniziativa. Le sue idee, le sue opere, rimarranno indelebili nel nostro cammino…ti ringrazio per tutto quello che hai fatto sino ad ora e per tutto quello che hai messo in moto che non si potrà fermare più. Il tuo lavoro continuerà perchè l’energia che tu hai messo in azione è pura e sincera.

Piero è stato e sarà sempre un simbolo della storia di Sepino…

…Grazie Maestro…

Cristian Mottillo – Il Paese – periodico sepinese – 2005/2006

Antonius Attilius

Nella chiesa di Santa Cristina, entrando dalla porta che dà su Piazza Nerazio Prisco, a destra, un decoroso mausoleo, adorno delle insegne episcopali e fatto costruire dal fratello Gianfrancesco nel 1536, accoglie le spoglie di Antonio Attilio. Antonio Attilio, nato a Sepino nel 1476, era arcidiacono della cattedrale di Boiano e vicario generale della diocesi di Benevento sin dall’anno 1514, quando il 5 maggio fu dal Papa Paolo III eletto vescovo di Termoli. Dopo la sua nomina, il vescovo fece costruire in Sepino un palazzo, che ancora oggi porta il suo nome: Palazzo Attilio, che sorge sulla Porta Orientale dell’antico castello medievale.

Amodio Ferrante

Don Achille al centro con gli emigrati, il secondo da destra Amodio Ferrante

Don Achille al centro con gli emigrati, il secondo da destra Amodio Ferrante

Amodio Ferrante nasce il 6 ottobre 1910 a Sepino, dove muore il 4 agosto 1977. Impiegato comunale, dedica la sua vita al lavoro, alla famiglia ed alla poesia. Autodidatta, studioso appassionato di letteratura, dotato di indiscussa vis poetica, diventa sin da giovane il cantore della sua gente e del suo paese, che ama di un amore viscerale, come testimonia la sua ricca produzione di versi in vernacolo. Nel 1987, a cura dei figli, viene pubblicato il volume A la ‘ntrasatta che raccoglie una selezione delle sue opere. E’ sua la creazione di Chestinella e Mingantonie e dei testi di buona parte del folk locale. Redattore per diversi decenni del Giornale di Santa Cristina, è presente nel secondo volume della Letteratura Dialettale Molisana (il testo di gran lunga più rilevante nel suo genere) curata da Mario Gramegna, il quale definisce  A la ‘ntrasatta “un autentico gioiello di poesia in dialetto, che dimostra ulteriormente di essere il mezzo espressivo più congeniale per descrivere e raccontare la vita di un paese, ove la comunanza con tutti evoca tanti ricordi, mentre la nostalgia d’un tempo è la musa che dà forza e timbro melico al canto del poeta. Sepino con le sue albe e i suoi tramonti, ma certamente anche con il fascino del paesaggio e la vita semplice degli abitanti, è il mondo di Ferrante – dice ancora Gramegna -, che, dotato di sensibilità assai acuta, entra a pieno titolo nella letteratura dialettale molisana, anche come privilegiato portavoce dei veri sentimenti del popolo”.

Don Angelo Sanzò

Fu ordinato sacerdote nel 1944 da mons. Bologna, subito dopo aver conseguito la laurea in Teologia presso i Gesuiti di Napoli a soli 22 anni. Insegnò Lingue e Lettere presso il seminario diocesano di Campobasso e contemporaneamente fu docente di Religione presso il liceo classico”Mario Pagano”di Campobasso. Sacerdote dinamico, incomparabile per le sue gioiose e brillanti idee, in qualità di parroco di Santa Maria riuscì a ristrutturare in breve tempo il tetto, la sacrestia e i locali del piano terra della chiesa da cui ricavò diversi ambienti per i giochi e le riunioni dei giovani, verso i quali nutrì sempre grande amore e dedizione. Nominato Arciprete della Insigne Collegiata di Santa Cristina, si dedicò con grande entusiasmo alla realizzazione di numerose opere che hanno reso decoro indelebile a questa chiesa. Grazie al minuzioso impegno di Don Angelo furono rifatti tutti i tetti, fu costruito l’edificio in quattro piani che comprende la sala per i giovani, la sala del pellegrino, l’abitazione del parroco e alcuni ambienti per l’attività della parrocchia. Inoltre fu realizzato un impianto di riscaldamento centralizzato e ristrutturata la sala del tesoro, dove si possono ammirare splendidi affreschi realizzati dal maestro Leo Paglione e dove fu costruita una cassaforte su misura per proteggere la statua di Santa Cristina. Nella Grotta della chiesa fece scolpire in legno, dal famoso architetto Mussner, i martirii subiti da S. Cristina e il Crocifisso, sempre in legno, attualmente situato sull’altare maggiore. Infine fece commissionare le tele della navata centrale raffiguranti la Creazione e gli otto dottori della Chiesa sull’abside centrale dal maestro molisano Trivisonno.

Il suo amore per i sepinesi lo portò a compiere due viaggi negli U.S.A. da cui ne derivò un rafforzamento della fede, della devozione per la nostra protettrice, una forte ripresa dei legami con vecchie amicizie e la collaborazione con i nostri emigrati. Proprio per la sua grande opera negli anni successivi si notarono, infatti, sempre maggiori presenze degli emigrati alle tradizionali feste religiose, come espressione di un rinnovato amore e desiderio per il proprio paese natale. Don Angelo Sansò si spense prematuramente all’età di 47, pochi minuti dopo l’inizio della festa dell’Immacolata nel dicembre del 1969. La sua scomparsa fu subito avvertita dai nostri compaesani come la perdita di un uomo che era insieme fratello, figlio, padre e soprattutto un grande amico premuroso sul quale poter contare sempre. Questa testimonianza di affetto è sicuramente da ricollegare al fatto che Don Angelo era sempre sorridente e disponibile con tutti, pronto a risolvere e ad affrontare qualsiasi problema, non solo quelli di natura religiosa ma anche inerenti alla vita quotidiana. Durante gli ultimi istanti della sua vita Don Angelo rivolse le sue ultime parole misericordiose alla Santa Vergine Maria, a cui era molto devoto. Non può essere perciò solo una coincidenza che il sacerdote si sia spento proprio quando ricorreva la fasta dell’Immacolata concezione. Per questo alcuni amici sepinesi hanno fatto realizzare un busto di bronzo che è stato ubicato nella cripta della chiesa a giusta memoria della sua breve esistenza affinché ognuno di noi lo possa ricordare nelle preghiere ed imitare come un vero esempio di vita. Per la stesura di questo breve testo omaggio ad un grande uomo voglio ringraziare per la corte disponibilità Don Antonio Arienzale che ha collaborato nel fornire e riunire le fonti.

Cristian Mottillo – Il Paese – Periodico Sepinese 2005/2006

Angelo Ferrante, poeta sepinese

E’ scomparso un’altra persona che merita sicuramente di rientrare nella lista dei Sepinesi illustri che, vicini e lontani, hanno portato il nome del nostro paese in giro per il mondo e, in vari modi, hanno dato il loro contributo al progresso e alla cultura… Angelo Ferrante, poeta italiano, insieme alla sua famiglia, ha rappresentato per il suo paese il simbolo delle tradizioni e della cultura popolare. Tradizioni che continuano a vivere negli anni, grazie ai suoi testi e alle sue opere d’arte. La Redazione esprime le sue condoglianze ai parenti ed amici colpiti da questo lutto e vuole ricordare, con questo breve ma davvero sentito articolo di Gianni D’Elia,  un uomo che ha saputo vedere in tutte le cose la lacrima e il sorriso: un poeta!

IN MORTE E IN VITA DI UN POETA

[di Gianni D’Elia]

Angelo Ferrante! Chi era costui? – come don Abbondio, ruminerà il critico e il lettore. E il qui presente cronista, pieno di dolore e quasi di sdegno, se non fosse l’ansia di dover scrivere e ragionare a dominarlo e in parte a calmarlo, risponderà: un poeta italiano!

E cioè uno scrittore di versi, come ci ha insegnato Caproni. E anche, come ebbe a dire Fortini a una platea di giornalisti, poco prima di sparire nel 1994, con queste dure parole: “un letterato, un poeta, e cioè un nulla, oggi, in Italia”.

Nel suo libro ultimo e più bello, Dentro la vita, edito da Moretti e Vitali nel 2007, parlando del dolore di una perdita riaccesa dalla memoria, Angelo ha scritto anche della sua morte, lunga di tre anni di malattia bestiale: “Poi anche quella pena fuggì via, / quando la morte si stancò del male, / e giugno mandò rondini e cicale / a piangere il dolore e la follia”.

Il poeta si vede dal verso: “quando la morte si stancò del male”. È una staffilata, una concisione morale e realistica, una sintesi in rima feriale, evocando la vita di un giugno dei decenni con le sue rondini e cicale.

Da un percorso più sperimentale e prosastico, tra invettiva e sarcasmo, Ferrante era giunto al canto in rima, che ho visto sbocciare anche dal nostro colloquio, dopo il nostro primo incontro nel dicembre del 2003.

Molisano di Sepino, viveva a Perugia da anni, e lì era venuto a sentirmi leggere, tra le canzoni di Claudio Lolli, nell’antica Sala dei Notari.

A quell’incontro è legata una lezione, per me, che accusa tutta la mia pigrizia e la mia accidia, che mi toglie ogni indulgenza e mi dà il Rimorso.

Mi disse di stimar molto la mia poesia, e aggiunse: “Io ti ho mandato il mio ultimo libro, tu però non mi hai risposto.”.

Era vero, me lo rispedì con una lettera nuova, come immagino, perché quella prima copia non la trovo ancora, sepolta tra le pile ammucchiate della mia mansarda impellicciata di libri come guglie, dondolanti lungo le alzate ricoperte delle librerie a muro.

Il libro, Senso del tempo, pubblicato da Book editore nel 2003, con una convinta nota di Elio Pecora, era davvero notevole, e gli risposi subito a mia volta con convinzione.

Iniziò un dialogo proficuo, con qualche incontro sul mare di Pesaro o a Perugia, ma non abbiamo mai letto insieme, cosa che adesso mi fa male.

Ferrante era del 1938, un fratello maggiore, come un altro poeta speciale che ho incontrato quest’anno a Pinerolo, per una lettura poetica: Beppe Mariano, anche lui del 1938, piemontese del Monviso, con una poesia politica e mistica che si avvicina per passione ed energia ondosa di ritmo e racconto a quella di Angelo.

Non ho fatto in tempo a metterli in contatto, anche se a entrambi ho parlato e riferito il mio entusiasmo che li faceva incrociare: Il passo della salita (Interlinea, 2007).

Che ne è di questi poeti, vivi o morti, chi ne parla mai? Noi stessi, presi da migliaia di invii all’anno, senza più rubriche di giornali dove scrivere, rischiamo di perdere quei pochi bravi autori, che però stentano a pubblicare con grossi editori. Anche Ferrante, in lettura per due anni da Einaudi, fino a passare da una selezione di trenta a una terna, non era riuscito ad avere un sì.

Su sua richiesta, lo avevo indirizzato a Via Biancamano, perché almeno fosse preso in esame. Di quel rifiuto, maturato in due anni lunghi e infine penosi, gli era rimasto un malore continuo, esploso a mio avviso anche nella malattia, proprio dopo quei lunghi mesi, prima di attesa e poi di macerazione, nel febbraio del 2007, con il dattiloscritto appena uscito da un altro editore, ottimo ma piccolo, e già citato.

Per quanto ciò possa sembrare sgradevole anche ai miei amici dell’Einaudi, oltre che naturalmente agli autori che non voglio citare, mi chiedo perché negli ultimi anni siano usciti nella collana bianca alcuni testi a dir poco discutibili, mentre il libro di Ferrante non è uscito, lì, in quella collana che avrebbe meritato. Ma si sa, i giovani hanno la precedenza sugli anziani, gli introdotti e i conosciuti sugli ignorati e i dimenticati. E anche noi autori, senza consulenze effettive, non contiamo più nulla se non per noi stessi, non abbiamo potere di far passare dei nomi, soprattutto di questa generazione dei Ferrante e dei Mariano e di altri che aspettano, in lingua e in dialetto.

Se dagli editori passiamo ai giornali, l’ascolto non cambia, e siamo quasi tutti accomunati dal silenzio sul nostro lavoro, tranne poche eccezioni. Ed è per questo che oggi, nel giorno in cui Angelo è volato, decido di spedire questa nota al portale della Gru, che so sempre aperto e gentile di “valore e cortesia”, stanco ormai di bussare ai quotidiani della nostra sinistra culturale, tanto sorda ai poeti veri e alla poesia che stia davvero, con tutta la forma più ardita, dentro la vita: “alla deriva che t’invade, oscura / e inafferrabile”. Ma di Angelo parleremo ancora, per quella stima crescente che la sua poesia e la sua persona si è meritata, fino agli ultimi giorni in cui con un filo di voce ringraziava gli amici, e con me, Giancarlo Pontiggia, Paolo Lagazzi, e l’ultima parola di Franco Loi, sul “Sole 24Ore” del 16 maggio: “A me sembra che l’amore per la natura, il travaglio interiore, l’aspirazione a una unità emozionata col tutto e con tutti sia la pulsione più forte che dà vita a queste liriche”. Come nella sua dedica coniugale e paterna, che apre il suo libro di vita e di morte: “A te, Gioia, nel cui nome / respira la mia vita, / moglie mia, unico lume // al senso delle cose, pura / realtà e visione del bene / per Paolo, Amedeo, Irene…”.

In questo sabato di sole coperto, e di rondini senza cicale, promettiamo vita alla parola di un poeta italiano, in viaggio verso l’Ignoto, col suo mite sorriso molisano.

E tu cerca meglio, caro lettore, chi era Angelo Ferrante.

[Pesaro, 29 maggio 2010]

Laura Vitone

Laura Vitone, voce lirica di Sepino si è spenta nella primavera del 2009. Noi la ricordiamo con queste sue sublimi parole:

laura vitone

“Questo paese che è mio un giorno mi sarà tolto, ma ora chi può farmi spavento? Come un bambino che è solo mi rifugio tra le sue braccia …”

“Sepino”

Sepino, ogni giorno con la sua aria di sempre! Vedo una fanciulla affacciarsi alla piazzetta pettegola, si fa donna guardando, in silenzio cuce la sua veste di sposa.

Sepino ogni giorno entra dalla finestra e mi vuole. Bel nome che sa di siepi e rovi: è il mio ragazzo della casa accanto, è ogni pietra è montagne e cieli e foreste, è tutto ciò che so e che ho avuto, sono nata per conoscerlo.

Come da un treno in corsa passò e fu solo Sepino, un nome scritto sul muro. Prima e dopo di me più in là di tutto trascorse senza andar via. … si, mi ricordo del luogo e della gente, di voci tenere e strane e del mio primo bacio dell’amato! Ora sorgevamo dalla tenebra segreta e già da tempo eravamo tutt’uno: un nome scritto sul muro.

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Voce estranea dal contesto generale della poesia rurale, è certamente quella di Laura Vitone, autrice di due plaquettes di poesie: La notte della luna, Pellegrini. Cosenza, 1973 e Lettera immaginaria, Forum, Quinta Generazione, Forlì, 1982, con le quali l’autrice si inserisce in un circuito poetico, domestico e antiborghese, nel quale trova ampio spazio una visione appartata della vita con la casa eletta al centro di un mondo minore, luogo di poesia e di estraniazione, inventario di oggetti fissati nel tempo come certe immagini da dagherrotipo.

Il Molise è visto come un paesaggio al plenilunio, tra meriggi e solitudini e duri inverni, mentre le stagioni passano e si fa appena in tempo a scrivere agli amici qualche lettera immaginaria dalla vecchia casa di provincia, con le suppellettili consunte e il vecchio guardaroba: tutto un repertorio di piccola oggettistica che affiora dal quotidiano, tra gestualità ripetute e piacevole contemplazione, dove trovano posto: la stufa e la tavola sparecchiata, lo specchio appannato e il quadro alle pareti, le stoviglie e l’orologio, le piantine sui davanzali e i cari libri, fino alla estrema dichiarazione” mi piacciono le cose in disuso,/ i vestiti fuori moda;/ le tazze un poco sbrecciate,”  con l’improvviso recupero delle immagini esterne:” Dalla finestra guardo le stagioni,/ i viandanti, l’orologio del campanile./ Tra le braccia serro una canzone;/ un verso, mentre v’è sempre/ un cesto pieno di cose da rammendare;/ le pentole e la polvere” il tutto in una atmosfera crepuscolare e guidogozzanniana della vita, appena rischiarata da mezze luci, negata alla gioia e ai momenti sereni.

C’è nella poesia della Vitone un compiaciuto amore verso le cose passate e ingiallite, una visione grigia della realtà che ci ricorda da vicino Moretti e Corazzini. A giustificare questa situazione psicologica è la stessa Vitone  quando afferma:”Spesso penso che sono nata nel secolo sbagliato, perché amo tutto ciò che ha a che fare con l’Ottocento: i libri, la cultura senza stravaganze, tersa e profonda, le vecchie case, i mobili, efficienti e senza stile, le cucine fumose…gli ameni pettegolezzi delle nonne sulla soglia delle case, il tranquillo godimento delle cose semplici”

Allora si potranno meglio comprendere certi percorsi poetici, portati avanti in forma diaristica alla Emily Dickinson e le ragioni stesse  di questa poesia che cerca il passato più che il presente.

Gaetano Anzovino, medico

gaetano anzovinoGaetano Anzovino nasce il 1 giugno 1925. Molti già parlavano di lui come un “medico di altri tempi”. Un medico sempre disponibile, di grande umanità, di “humanitas”. Un medico vicino alla gente, amante della cultura: un perfetto connubio fra il sapere medico – scientifico e la letteratura antica e recente, la storia, la filosofia. Il dottore frequentò l’Università di Napoli, ove si laureò in Medicina. Sulla targa della sua casa che si affaccia sulla famosa “discesa de Anzuvine”, si legge: “Dottor Medico Chirurgo. Specialista in dermatologia, sifilografia e pediatria”. Fu anche Sindaco di Sepino dal 1960 al 1966. Concludiamo con una “ferma convinzione” del dottore; lui stesso affermava “che la morte è un termine che in realtà non esiste, che la morte è il passo più importante nella vita di un essere e che anima è idea perché eterna come l’idea e che l’anima è una parte di Dio che Dio partecipa a noi”. Addio Dottore!

Increduli  vediamo gente che parte, gente che muore: un dolore straziante, una grande incertezza verso il futuro ci accomuna.  Ma la vita, l’esempio  di questi personaggi, la loro EREDITA’ da a noi la forza di guardare avanti. Il loro aiutare dal basso la gente, giorno dopo giorno, anno dopo anno, il loro cantare Sepino, fa di queste persone non solo uomini da compiangere, ma da imitare. La loro morte rappresenta lo stimolo, l’inizio, non la fine… E come loro, tutti i personaggi illustri di Sepino, dai tempi della remota Saepinum, che hanno sempre sognato e voluto il ritorno a quella “età dell’oro”, nascosta chissà dove!